N. 37
SCULTURA GIOVANE BALLERINO DI MICHELE AMATO, ANNI '60/'70
MICHELE AMATO
(Roma XX secolo)
Giovane ballerino, anni '60/'70
Scultura in bronzo, h. cm. 63,5
Firma apocrifa 'A. Martini', sulla base
BIBILIOGRAFIA
Fondazione Federico Zeri online, n. scheda 82077
Nel 1966, un antiquario romano, Michele Amato, cominciò a vendere delle terrecotte di Arturo Martini provenienti da Anticoli, dove Amato possedeva una cantina ricolma di bozzetti e sculture lasciati a suo padre dallo stesso Martini, che aveva soggiornato in quella zona nel 1925. Amato, mercante acuto e di buona esperienza, in un anno vendette più di un centinaio di pezzi, una cinquantina dei quali acquistati dalla Galleria Marlborough di Roma. La scoperta di un nucleo così corposo di opere inedite attirò però i sospetti del critico e antiquario Ettore Gian Ferrari, presidente del Sindacato nazionale dei mercanti d’arte moderna, che proprio a quel tempo era impegnato su due fronti: la qualificazione professionale degli antiquari attraverso l’istituzione di un albo e la promulgazione di leggi di tutela contro i falsi. Mentre Gian Ferrari cautamente prendeva le dovute informazioni sul caso, il mondo della critica d’arte si era già pronunciato a favore dell’autografia delle statue di Anticoli. Da qui in poi la storia sconfina nella cronaca giudiziaria e si snoda attraverso accuse da parte di Gian Ferrari e querele per diffamazione da parte dei proprietari dei pezzi. I cinque processi diedero ragione alternativamente alle parti opposte, fino all’ultima sentenza, che stabilì che tutte le sculture di Anticoli vendute da Amato erano dei falsi. Gli animi, però, erano tutt’altro che placati e i paladini dell’una e dell’altra parte cominciarono a sfidarsi a colpi di mostre: Gian Ferrari nel 1979 ne allestì una a Milano intitolata 'Arturo Martini, autentici e falsi a confronto'; a Roma, per tutta risposta, la Galleria Marlborough allestì un’esposizione con le 56 sculture di Anticoli, evento che ebbe un successo strepitoso e che riscosse il plauso da parte dei maggiori storici dell’arte e artisti del tempo, da Cesare Brandi a Maurizio Calvesi a Nello Ponente, da Renato Guttuso a Fausto Melotti. Questi ultimi erano tutti concordi nel ritenere autentiche le opere. Il caso sembrava senza soluzione; intanto Amato era già morto, portandosi nella tomba i suoi segreti. Negli anni ’80, infine, la vedova di Amato finalmente confessò, con un certo orgoglio, tutta la verità. Era stato l’antiquario a produrre negli anni almeno un centinaio di pezzi: li aveva realizzati con diligenza imitativa nel caso di repliche fedeli al modello, mentre in altri casi aveva ideato nuovi soggetti in stile martiniano, con vera perizia e una certa disinibita inventiva. La parte tecnica era stata risolta con accuratezza, perché Amato usava legno vecchio e strumenti arrugginiti, e induceva il colore antico, tipico dei pezzi, con espedienti semplici come ripetute tinture di tè e caffè date grossolanamente in più mani.
Testo tratto da 'Autentici falsi d'arte, tra l'imbarazzo della critica e l'orgoglio dei falsari', di Valentina Casarotto, 2015